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domenica 23 settembre 2012

Frozen Tears - Nights Of Violence



Etichetta: My Graveyard Productions
Anno: 2007
Durata: 49:34 min.
Genere: Heavy Metal

I fiorentini Frozen Tears sono ormai una garanzia, poche storie, e con questo disco nuovo di zecca lo confermano alla grande compiendo ancora un altro passo avanti rispetto al già buon “Metal Hurricane”, il precedente CD e l’unico altro che possiedo e ho ascoltato (ma non credo di essere il solo purtroppo, vista la scarsissima reperibilità delle prime due uscite, per la sudamericana Megahard), che risaliva ormai al 2004.

Si nota subito, oltre alla solita bella copertina e in generale alla cura e ricchezza del booklet (come per altre uscite dell’emergente My Graveyard Productions, del resto), un suono ancor più compatto e curato che in precedenza, senza per questo rinunciare comunque alle chitarre affilate né all'eccellente nitidezza generale, che permette ad ogni strumento di farsi sempre notare anche nelle varie finezze e passaggi più intricati sparsi qua e là. Ma anche in questo caso parliamo, non per nulla, di una garanzia assoluta del campo ormai, ovvero i Fear Studio di Ravenna.

Anche lo stile, pur rimanendo saldamente ancorato a stilemi di puro heavy classico con in particolare una predilezione per gli “Dei” Judas Priest, in questo nuovo lavoro amplifica anche alcune altre influenze (ammesso che non fossero già patrimonio del gruppo nei primi due dischi, a me ignoti ripeto), già accennate in certi brani e passaggi del precedente; ad esempio alcuni riff, ritmiche e accelerazioni assimilabili a qualcosa del miglior power-speed degli anni ’90, alla Gamma Ray, per fare un nome su tutti, avvertibili nell’ottima “Heart Of Stone”, per dirne una.

Da notare anche e soprattutto, a mio parere, un netto miglioramento nella cura delle linee vocali - e un po’ anche della prova stessa del cantante, davvero sempre meglio col passare del tempo - che ora risultano, paradossalmente, sia più lineari e immediate sia più “profonde” e longeve, davvero riuscite.

Il disco si apre alla grande con “Instability”, che dopo una specie di breve intro parte con un riff molto classico e orecchiabile, tra Judas e Accept, senza per questo risultare comunque banale o stantio, e si sviluppa successivamente in una bella cavalcata tra mid e up-tempo, con Alessio subito padrone della scena con la sua voce roca, corposa e carismatica. Da notare in generale per questo disco un minor uso di puro screaming, se non principalmente in sovrapposizione/backvocals e in alcune strofe di qualche brano tipo “Who Am I?” ma, come dicevo sopra, tutto a vantaggio di maggiore corposità, carisma e linearità/orecchiabilità di tutte le melodie. Le chitarre di Leonardo e Lapo sono come al solito sempre precise e affilate e scorrazzano sul supporto solidissimo e altrettanto preciso della sezione ritmica di Massimiliano e Giovanni (rientrante ex-drummer della band, presente già nel loro secondo disco). 

“Queen of Solitude” si presenta più rockeggiante, con alternanza tra strofe dove le chitarre lasciano per un attimo il campo solo a voce e sezione ritmica abbastanza “leggera”, ed esplosioni molto trascinanti e anthemiche, senza ovviamente farsi mancare riuscitissimi soli, sempre azzeccati, precisi, con un ottimo suono e perfettamente integrati in ogni parte.

Della terza “Heart of Stone” ho già accennato, si tratta di uno dei migliori pezzi secondo me, con “iniezioni” power-speed davvero esaltanti sotto il ritornello, doppia cassa lanciata al galoppo più del solito senza risultare in ogni caso troppo invadente ma anzi perfetta per il tipo di pezzo, e in ogni caso lontano da strofe o ritornello e capace anche delle variazioni che si possono sentire abbondantemente pure nel resto del disco. Ottima di nuovo anche qui la parte solista.

Direi che è un po’ inutile e anche noioso da leggere continuare con un track-by-track fino in fondo, basta rimarcare che il livello è sempre alto con forse solo un leggero calo nel finale, per esempio gli ultimi due pezzi propri prima della cover finale di “Run If You Can” degli Accept, ma sempre in ogni caso sopra la sufficienza piena senza problemi. Cito solo la sparata “Stories”, altro ottimo pezzo, uno dei più immediati e d’impatto tra l’altro, con un ritornello più evocativo ed “epicheggiante” del solito e degli stop’n’go/licks di chitarra sparsi qua e là (tanto brevi quanto esaltanti e azzeccati) per variare il tutto al meglio e ovviamente eseguiti ancora una volta perfettamente.

La citata cover finale di “Run If You Can” dello storicissimo gruppo tedesco è resa alla grande, giusto compromesso tra fedeltà di fondo (nel ritornello soprattutto) e personalizzazione, tanto che risulta davvero perfettamente inserita nel disco e sono convinto che se uno non sapesse che è una cover altrui non troverebbe nulla di strano, nessuna incoerenza nel filo rosso che attraversa tutto il disco e che potrebbe far sospettare non sia appunto un brano loro; che poi sarebbe il modo in cui dovrebbero sempre essere eseguite le cover, stando al significato originale del termine, cioè fare davvero tuo un brano scritto e inciso da altri.

Il consiglio per chi legge è sempre lo stesso: se amate l’heavy classico più puro ma il giusto attualizzato (in senso buono, non di modernista e simile, ma spero si sia capito bene dalla recensione), in perfetto equilibrio tra tradizione e una propria personalità ormai innegabile, prodotto in maniera ultra-professionale ma soprattutto composto ed eseguito ad alti livelli (diciamo pure come è raro da trovare oggi nel campo, soprattutto nelle band più o meno emergenti, che spesso puntano più alle pose, al look e ai proclami di "truezza", che all'applicarsi davvero al massimo alla musica), questa band fa per voi; richiedete il (anzi, “i”) CD a scatola chiusa e non ve ne pentirete di certo. E non perdeteveli dal vivo se vi capitano a tiro, perché anche in quell'ambito sono davvero notevoli.

Voto: 8.5/10 (con i ripetuti ascolti di entrambi, contrariamente a quanto affermavo nelle prime righe al tempo della scrittura della recensione, ho cambiato idea ritenendo nel complesso un pochino superiore il precedente, "Metal Hurricane" appunto, e miglior disco che avessero fatto prima dell'ultimo "Slaves". Ma per il resto non cambia ovviamente niente di quanto affermato né il voto numerico, perché anche questo rimane un grande album)

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(originariamente scritta per e pubblicata nella sezione recensioni del forum "Granducato di Metallo", i primi mesi del 2007 poco dopo l'uscita del disco) 

 Alessio Casciani

lunedì 10 settembre 2012

Hellrage - Eclipse Of Time



Etichetta: Metal Horse Productions
Anno: 1996
Durata: 20:49 min.
Genere: Death/Thrash Metal, con influenze tecnico-melodiche

Gli Hellrage erano una promettente band pisana che purtroppo ebbe vita relativamente breve, avendo fatto perdere le proprie tracce (non ricordo al tempo un annuncio di scioglimento ufficiale, per la cronaca) proprio all’indomani della pubblicazione di questo EP, o per meglio dire mini-CD, addirittura un digipak, formato non così diffuso al tempo, tantomeno da parte di band underground praticamente al debutto (in realtà nella discografia hanno anche un demotape dell’anno prima, che però non conosco).

Il lavoro fu inciso ai Westlink Studios di Pisa nell’agosto del 1996 e stampato dalla piccola Metal Horse, e proponeva una ventina di minuti (4 pezzi e un outro strumentale di circa un minuto) di death con qualche influenza “thrashy”, uno spiccato senso melodico soprattutto all’altezza delle aperture soliste e una perizia tecnico-compositiva senz’altro degna di nota; il tutto prodotto in maniera piuttosto buona, sia per impatto e compattezza generale che per la distinguibilità dei singoli strumenti.

Il CD si apre con la title-track, che propone subito dei bei riff stoppati/serrati che variano spesso e si intrecciano molto bene con le linee di basso, strumento quest’ultimo che riesce sempre ad uscire alla grande dall’insieme pur macinando note su note, ricordando quindi per certi versi (con le dovute proporzioni ovviamente) il classico stile di uno Steve DiGiorgio, ad esempio in un disco come “Individual Thought Patterns” (c'è davvero bisogno di dire di chi?), anche se azzardo che il bassista degli Hellrage suonasse col plettro, ho questa impressione da certi passaggi e sfumature.
Tra l’altro, sia in questo primo pezzo che negli altri, una certa influenza da parte dei dischi dei primi anni ’90 della leggendaria band dell’indimenticato Chuck si sente anche in generale, proprio nell’approccio sì abbastanza immediato e d’impatto, ma allo stesso tempo con quella componente di intricatezza e attenzione alla precisione d’esecuzione, nonché, come detto all’inizio, ad un senso melodico spiccato nelle aperture soliste, che caratterizzavano appunto dischi come “Human” o “Individual…” (per non parlare del successivo “Symbolic”, dove vennero sviluppate ancor di più queste componenti). Potrei citare anche “Heartwork” dei Carcass comunque, per motivi analoghi.

Il cantante adotta un timbro assai “acido”, né basso e pieno come un vero e proprio growl tipico del death metal più classicamente inteso, ma nemmeno uno screaming troppo esasperato e acuto, diciamo una via di mezzo, e le sue linee sono tra l’altro abbastanza “immerse” nella musica, non nettamente sopra come si sente spesso in altri casi.
Si mette subito in evidenza anche un bel lavoro di batteria, doppia cassa compresa, che pare triggerata ma comunque non fastidiosa o troppo “finta”.

Si prosegue con “Prelude to a Funeral Sun”, dall’attacco molto accattivante con riff stoppati abbastanza thrasheggianti, solito basso pulsante e con di nuovo, nello sviluppo del pezzo, nette aperture melodiche a intervallare il solito intreccio chitarristico, le evoluzioni della batteria e il “ringhio” del cantante.
Si notano anche qui come nell’opener, ad esempio nell’atmosfera creata dalla coda semi-acustica del brano, pure occasionali influenze riconducibili alla scena del cosiddetto “death melodico svedese” (o “Gothenburg sound” che dir si voglia), che in quegli anni era al culmine sia di fama che creatività - almeno per le band migliori ovviamente - anche se negli Hellrage, in media, le partiture e l’esecuzione delle ritmiche rimanevano molto più stoppate e compresse rispetto ai tipici riff “trillati” in maniera quasi sempre aperta per produrre i classici suoni lineari e con un effetto quasi sinfonico di molte band di quella scena.

Il terzo pezzo è “Into Darkness”, che si apre in maniera pacata e atmosferica con un breve solo melodico (che ritorna simile poco dopo), arpeggi acustici con basso in evidenza e ritmo comunque molto lento per i primi 2 minuti e rotti. Poi entrano chitarre elettriche e voce (con ancora sentori di Svezia nell’attacco), ma il ritmo si mantiene abbastanza basso per qualche altro istante, prima che arrivi un’accelerazione come già sentito nei brani precedenti. Poi ancora stacco “tranquillo”, assolo già presentato all’inizio e schema che si ripete un’altra volta. Gran bel pezzo, forse il migliore.

L’ultima canzone vera e propria è “Eyes Veiled (With Sadness)”, piuttosto lunga e articolata anche questa (oltre i 5 minuti e mezzo, come la precedente), ma qui si attacca subito in up-tempo con un bel giro armonizzato delle chitarre e doppia cassa “nervosa”, prima che parta il solito muro di riff abbastanza intricati e con continue variazioni ma allo stesso tempo, a loro modo, melodici e accattivanti, come sempre assistiti dai giri di basso in bella evidenza. Nel corso del brano si alternano poi vari cambi di tempo e interventi solisti che confermano il gusto della band, tutto completato dalla sempre incisiva interpretazione del singer. Altro pezzo davvero notevole.

La quinta e ultima traccia è un “liquido” arpeggio di basso e fa da outro, come da titolo del resto, “Outro: Memories of a Ghostlife”.

I cinque ragazzi che incisero il CD in esame erano:

Salvo Sequino – Guitars
Nicola D’Alessio – Guitars
Andrea Pifferi – Vocals
Emiliano D’Alessio – Bass
Fabrizio Calizzi – Drums

Credo sia difficile reperirlo nella sua forma originale ormai (magari date un'occhiata su Ebay), ma se vi capita di vederlo da qualche parte, soprattutto se non a prezzi da rapina, se apprezzate il tipo di approccio alla materia death/thrash sopra descritto, secondo me potete andare sul sicuro e accaparrarvi questa piccola “chicca” underground italiana degli anni ’90, che purtroppo, come detto all'inizio, non ebbe seguito.

Voto: 8/10

 Myspace

(originariamente scritta per e pubblicata sulla webzine "Shapeless Zine" nel 2007)

Aggiornamento - Ecco una piacevolissima sorpresa scoperta per caso giusto pochi minuti fa, uscito come risultato nelle ricerche che stavo facendo su Google riguardo eventuali riferimenti in Rete del gruppo... si stanno riformando: annuncio della band

Alessio Casciani

venerdì 31 agosto 2012

Ballistic - Ballistic



Etichetta: Metal Blade
Anno: 2003
Durata: 47:38 min.
Genere: Speed/Power/Thrash Metal

Non c’è proprio da stupirsi per niente se questo disco, come peraltro quello dei Coram Lethe della prima recensione postata sul blog, ha preso il massimo dei voti (o quasi, in alcuni casi) praticamente su ogni rivista o webzine, di varie parti del mondo, dove sia stato recensito. Anche se, purtroppo, pare che tra gli appassionati non sia molto conosciuto, anzi, almeno stando alla mia esperienza e cioè nell’ambito del nostro Paese, e nonostante sia uscito per Metal Blade, quindi reperibile abbastanza facilmente ovunque. A dirla tutta sembra che sia “sfuggito” per qualche motivo anche a varie webzine nostrane, in certi casi pure “grosse”.

Innanzitutto c’è da dire che la band che ha inciso questo disco non è certo formata da debuttanti, a partire dal chitarrista/cantante e leader Tom Gattis, attivo nella scena metal americana fin da adolescente o poco più (fine anni ’70), con monikers come Deuce e Tension (in questi ultimi c’era anche il bassista ancora oggi al suo fianco), e più recentemente con i Wardog. Il batterista Rikard Stjernquist è invece in forza da anni anche ai Jag Panzer.
Le biografie, foto d’epoca e notizie varie, oltre al demo/promo di 3 pezzi precedente a questo disco e liberamente scaricabile, le potete trovare nel suo sito segnalato a fondo recensione (*).

Il disco è una vera bomba che mette insieme quasi costantemente i tre stili sopra indicati, intendendo ovviamente, visto anche quanto detto sul personaggio, sia con il termine “speed” che con “power” i relativi approcci americani a questo genere, quindi mediamente molto più “spigolosi”, ruvidi e d’impatto rispetto a tantissima roba europea che, soprattutto negli ultimi 10 anni, è stata etichettata e descritta usando appunto quelle parole (del tutto legittimo in ogni caso, sono tali anche quelle e l’Europa non ha certo nulla da invidiare agli USA come tradizione power/speed, ma restano due approcci quasi sempre nettamente distinti e quindi chiarivo, visto che molti apprezzano il primo ma non il secondo, o viceversa). Altrettanto ovviamente qui non si trova traccia di nessun tipo di tastiera o arrangiamento sinfonico, semmai vari riff piuttosto thrash.
Inoltre il tutto è suonato con una maestria davvero notevole da ogni componente, mai scontato o prevedibile (pur essendo in ambito molto classico in un certo senso), e capace di integrare sempre al meglio nei pezzi virtuosismi notevoli che non sono certo la norma in questo campo.
Gattis canta con un impeto e un coinvolgimento raro da sentire in giro, spesso forse andando addirittura un filo oltre quelli che sarebbero i suoi limiti naturali di fiato o estensione (ma era quasi inevitabile, visto il ritmo mediamente altissimo e le metriche di conseguenza molto serrate, spesso affrontate probabilmente in “apnea” dall’inizio alla fine di ogni frase); eppure anche questo alla fine non appare un difetto, anzi, fornisce un fascino e una spontaneità ancor maggiore ai brani, o almeno questa è l’impressione che ho avuto io fin dai primissimi ascolti. Anche perché, a scanso di equivoci, non si parla assolutamente di stecche o stonature vere e proprie, per nulla, solo di andare appunto “al limite” o anche un filo oltre, ma essendo ancora in grado di gestire perfettamente la situazione senza che scappi di mano, come probabilmente accadrebbe a molti sprovvisti della sua esperienza e talento.

Un cenno anche sui suoni e sulla produzione generale, per la quale si può fare un discorso analogo a quanto detto sopra per l’esecuzione e lo stile, ovvero moderno e classico allo stesso tempo. Moderno perché comunque si sente al volo che l’impatto, la qualità, il volume di uscita ecc. sono associabili senza dubbio alcuno ad un disco degli anni duemila, ma classico perché il tutto non è “pompato” all’eccesso, le chitarre hanno la “grana” della distorsione non troppo fine, compressa e pulitina come in molte uscite di power/heavy/speed e dintorni (e non solo) post-metà anni ’90 circa, la batteria non suona finta e in generale non c’è la sensazione di un blocco unico dove i singoli strumenti non sono così distinguibili e tutto è quasi “plasticoso”. Qui, nonostante l’impatto notevole e il coefficiente di metallicità alle stelle come di rado si sente, ogni strumento “respira” alla grande ed è un piacere sentire sempre bene anche il basso (ottimi tra l’altro anche i suoi occasionali mini-assoli all’interno dei brani in stacchi vari), che in molte produzioni moderne pare scomparire letteralmente sotto il resto, che siano tastiere, chitarre o batterie iper-triggerate (anche se c'è da dire che in certi approcci e stili nettamente diversi da questo la cosa ha un senso diverso e non è necessariamente un difetto, solo che spesso non si sentono solo in quelli le suddette produzioni).

L’album è molto omogeneo, quindi abbastanza inutile stare a fare un track-by-track completo; mi limito a segnalare giusto la partenza a razzo con “Collision Course”, dove si mette subito in mostra anche l’ottimo chitarrista solista Peter Petev, “Watch Me Do It”, che, dopo un attacco con riff e scale velocissime sulla falsariga delle precedenti, modera la velocità su un tempo medio e riffoni più scanditi ad accompagnare la solita voce incisiva e fierissima, salvo poi “incasinarsi” di nuovo con vari stacchi, accelerazioni ecc., o le più melodiche (quasi maideniane per vari aspetti) e dotate dei ritornelli forse più immediati e riusciti di tutto il lavoro, a titolo “Call Me Evil” e “Silent Killer”, poste in rapida sequenza. E citazione d’obbligo anche per “The Dissection/Into The Sever Chamber”, che ospita come vocalist Dave Brokie dei folli/demenziali Gwar, e per la stupenda (una delle migliori secondo me) “Undefeated”, dotata della solita velocissima ritmica nelle prime strofe, ma poi capace di stacchi, variazioni, riff, fraseggi e assoli davvero perfetti e in certi casi anche abbastanza imprevedibili, con su tutto l’ennesima interpretazione vocale ottima e trascinante del leader.

Una considerazione viene spontanea: negli ultimi anni molte band giovani hanno riscoperto, anche in USA, il “vero metal”, dopo il grunge che monopolizzò la prima metà dei ’90 e l’indigestione del cosiddetto “nu-metal” (o “new” che dir si voglia) successivamente. Parlo di molte di quelle band etichettate erroneamente “metalcore” e che di "(hard)core" non hanno quasi mai nulla, essendo totalmente devote all’approccio death svedese più o meno melodico che andava al massimo oltre 10 anni fa, oltre che al vecchio thrash della Bay-area e a mostri sacri del metal classico di sempre come i Maiden (per i fraseggi melodici e gli assoli, che del resto avevano già influenzato molto proprio quella prima ondata svedese melo-death); ma, ancor più in particolare, di quelle alla 3 Inches Of Blood, per citare una delle più conosciute forse, che, a differenza di moltissime delle suddette, sono ancor più classiche e incompromissorie, non sporcando/intervallando, ad esempio, l’assalto metal con interventi in voce pulitissima, ultra-melodica e che tenta di essere “emozionale” al massimo, risultando invece del tutto fuori posto, quando non addirittura un po’ stonata.
Ma anche quando, e arrivo al dunque, alcune di queste band sono bravine, abbastanza convincenti, trasudanti vera passione per il grande metal passato che citano ad ogni riff o linea vocale, se la cavano alla grande con gli strumenti e via dicendo, beh, la differenza con la coesione, il mestiere, la spontaneità di ogni passaggio scritto ed eseguito, la caratterizzazione dei singoli pezzi di un disco, l’efficacia delle linee vocali e dei ritornelli e chi più ne ha più ne metta, di una band di musicisti navigati, che sono stati magari anche parte di quella stessa storia (anche se in band minori, come in questo caso) e hanno sempre avuto una certa visione del metal indipendentemente da qualsiasi moda o altro, si sente in maniera nettissima e innegabile, non ci sono storie: il resto al confronto sa tutto di posticcio, di “puzzle” di riff/assoli/stacchi e linee melodiche messe insieme alla meno peggio e interscambiabili tra i brani senza che il risultato di ognuno di essi cambi in maniera rilevante.

Tornado al gruppo/disco in oggetto, nonostante quello che ho detto sopra, questo lavoro potrebbe risultare appetibile senza troppi problemi anche per quelli che di solito apprezzano prevalentemente il power/speed o il metal europeo in genere (come d’altronde io stesso, riguardo i generi più classici, compreso il tipo ultra-sinfonico, maestri Rhapsody su tutti), almeno se si parla di quello sì melodico ma allo stesso tempo anche piuttosto aggressivo e d'impatto, dotato della giusta ruvidezza e basato sul muro di riff di chitarra in quantità (Helloween, Blind Guardian pre-"Nightfall...", Scanner, Gamma Ray...). Perché la melodia non manca di certo qui, e non solo dal punto di vista vocale, quello più immediato, ma anche per molti aspetti strumentali. Insomma è uno di quei dischi che pur prodotti da band americane, a me suonano sempre anche molto “europei” per molti aspetti; un po’ come, per fare un nome storico, i Metal Church, debutto in particolare, con quel suo tono e fierezza epica nelle linee vocali di cui ti innamori al primissimo ascolto, i riff molto incisivi ma anch'essi orecchiabili e concatenati insieme in modo molto lineare e "assecondante" fin da subito, o anche i Vicious Rumors dei primi dischi, per rimanere tra i nomi storici del power metal made in USA.

Quindi il consiglio finale è di tener conto anche di quanto appena detto e dare almeno un ascolto, se vi capita, a questo gruppo, perché ha prodotto uno dei dischi (purtroppo già vecchio di quasi 4 anni e non ci sono al momento notizie di un successore) di puro metal più esaltanti, coinvolgenti e intensi degli ultimi 10 anni almeno, senza esagerare. E non concedo il massimo solo per la presenza di un paio di brani che reputo leggermente sotto al livello degli altri, ma si tratta sempre di pezzi più che buoni, non certo di roba scarsa o anche solo nella media.

Segnalo per eventuali collezionisti che l’ordine dei pezzi nell’edizione americana è quasi completamente diverso e presenta anche una bonus track alla fine.

Voto: 9.5/10 (oggi, dopo numerosi ascolti nel tempo, probabilmente ritoccherei leggermente portando a 9, ma la sostanza non cambia, discone stupendo che "spettina" letteralmente)

Myspace

(originariamente scritta per e pubblicata sulla webzine "Shapeless Zine" nel 2007)

(*) Il sito non esiste più a quanto pare, ma in compenso un paio d'anni fa hanno fatto il myspace suddetto e ci sono 10 degli 11 brani del disco.

Alessio Casciani

sabato 25 agosto 2012

Coram Lethe - The Gates Of Oblivion



Etichetta: Rising Realm/Crash Music
Anno: 2004/2005
Durata: 54:26 min.
Genere: Death/Thrash Metal tecnico-progressivo, con influenze melodico-svedesi

Disco disponibile finalmente nel 2004-2005 (a seconda dei Paesi) ma già inciso entro fine 2003, poi “slittato” di oltre un anno per ritardi di vario tipo, ad opera di una band piuttosto conosciuta nell’ambiente underground nazionale (ma non abbastanza, rispetto al suo valore), sia per varie esibizioni live che per l’ottimo primo CD autoprodotto del 2000 (“Reminiscence”).
I Coram Lethe, tanto per cambiare, vengono anch’essi dalla zona compresa più o meno tra Certaldo, Colle Val d'Elsa e Siena, come altre validissime band toscane, soprattutto in campo thrash/death e dintorni, e sono in attività da fine anni ’90. Già nel 2000, dicevamo, rilasciarono il loro primo demo/mini-album (ma considerato in realtà da molti un full a tutti gli effetti visto anche il genere, erano circa 35 minuti, per la cronaca), che ottenne ottimi responsi da critica e pubblico e presentava sei pezzi più intro davvero validissimi, orientati su un death tecnico che, pur avendo spesso e volentieri le classiche influenze del campo (Death, un po’ di Atheist e ultimi Pestilence, tanto per citare i maestri conosciuti, spero, da tutti), non cadeva quasi mai in sensazioni di déjà vu evidenti, oltre a inglobare qua e là delle sfuriate di batteria molto “martellante” e veramente serrata che non si trovano spesso nei pezzi dei suddetti gruppi. Ormai purtroppo questo lavoro è esaurito nella sua forma originale, a meno di novità dell’ultim’ora di cui non sono a conoscenza al momento; magari venisse ristampato con tutti i crismi un giorno! Se lo meriterebbe al 100%.
Nel 2003 esce un promo autoprodotto per gli addetti ai lavori, contenente quattro pezzi che poi ritroveremo anche nel disco completo e viene inciso appunto anche quest'ultimo, avvalendosi di uno degli studi che negli ultimi anni si stanno davvero imponendo per professionalità e resa finale in campo metal (e non solo tendente all’estremo come in questo caso), ovvero i Fear Studio di Alfonsine (Ravenna), con "Paso" dietro il banco, in sinergia con lo Studio 73 (sempre Ravenna) per le parti vocali, mentre le sezioni orchestrali dell’intro sono state fatte allo studio Le Carrozze di Siena. Ottima anche la masterizzazione finale opera di Stefano Cappelli al Creative Studio Mastering di Forlì, che ha dato un volume, una nitidezza e allo stesso tempo compattezza e muro di suono davvero ai massimi livelli. Il disco è uscito sotto Rising Realm/Crash Music, etichetta finlandese la prima (che probabilmente si è occupata di stamparlo e distribuirlo in Europa in licenza) e americana la seconda, sotto la quale, tra l’altro, ricordo anche il debutto di un’altra band italiana sempre nel 2004, i techno-death metallers Illogicist, da Aosta, notevoli anche loro (che nel frattempo però pare abbiano cambiato “casa”).

L’album si apre con un intro (“The Angels Fell”) che nei primi secondi è formato solo da interventi di tastiere, archi e percussioni e un’atmosfera un po’ cupa e misteriosa: non so se è solo una mia impressione, ma mi ha fatto pensare subito alla musica che si sente all’inizio del film-capolavoro di Kubrick “Shining”, quando viene ripresa l’auto dall’elicottero mentre attraversa le desolate strade in mezzo alle montagne (nota cinematografica: altre riprese analoghe non utilizzate, verranno concesse da Kubrick a Ridley Scott per il finale di altro capolavoro, Blade Runner); ma poi entrano con decisione anche gli strumenti tradizionali e sembra già un pezzo “normale” (tranne per l’assenza delle vocals), con ritmiche che preparano alla vera e propria partenza del disco con “Shouts Of Cowards”. Questo è un bel pezzo dinamico, di sicuro impatto fin dai primi riff e con uno stile che coniuga benissimo death/thrash un po’ influenzato da certa scena svedese di qualche anno fa e parti tendendi al death “tecnicheggiante” e ricercato tipico di band come quelle citate all’inizio o come, appunto, il loro primo album. Alla fine questo, pur ottimo pezzo e sicuramente perfetto per far entrare subito nel disco e nel loro (parzialmente) nuovo approccio e stile contenente molte più sfumature, influenze e cambi d'atmosfera, con un bel groove ritmico, riff e fraseggi orecchiabili sin dal primo ascolto pur non essendo per nulla banali, si rivelerà tra i due-tre più “ordinari” del disco (quindi lascio immaginare il livello degli altri…).
Infatti già con la seguente “Dying Water Walk With Us” buona parte della "concorrenza" (e non solo toscana o italiana) viene secondo me lasciata velocemente alle spalle in una nuvola di polvere, perché siamo di fronte ad uno di quei pezzi che davvero pochi possono permettersi di scrivere; qui c’è di tutto e tutto fatto alla perfezione: da parti più estreme con blast-beats e voce ultra bassa e gutturale, che possono richiamare certo death/brutal americano, a riff molto più tecnici e studiati abbinati alla voce che si fa più acuta, nel tipico scream estremo. E ancora, da stacchi assolutamente esaltanti, soprattutto per gusto e arrangiamenti (penso a quello stupendo verso metà brano, per esempio), a momenti in cui si mette in evidenza il basso parzialmente slappato, fino a parentesi atmosferiche sempre segnate da assoli di assoluto gusto, che preparano, rendendo ancor più efficaci, le ri-esplosioni delle parti più “forti” e tipicamente death, dove il batterista viaggia come un treno inarrestabile e con precisione metronomica. In una parola: stupendo.
Segue “Episode”, e qui si torna più specificatamente sul technical/prog-death, con un brano ricco di stacchi e controstacchi, dove una certa influenza dei Death della seconda parte di carriera, o anche degli Atheist, torna a farsi sentire un po’; ma il tutto è in ogni caso personalizzato col loro gusto, tocco e talento, quindi 100% Coram Lethe e altro ottimo pezzo. Discorso analogo possiamo fare anche per la seguente “Instinct”, che pare il suo naturale seguito, anche se presenta delle parti più spedite, “groovy” e lineari che si ricollegano per certi versi a "Shouts Of Cowards". Quindi, questi sono due ottimi pezzi, ma diciamo che li metterei sicuramente almeno un gradino sotto a quanto sentito immediatamente prima.
Ma i livelli assoluti di eccellenza non tardano a farsi vivi di nuovo nel loro massimo splendore.

Arriviamo infatti ad “I, Oblivion”, che torna ad amalgamare alla perfezione un po’ tutto il meglio del metal nei campi death/thrash, death svedese più o meno melodico e death tecnico dei rispettivi anni d’oro: inizio un po’ sognante con vocals ugualmente “oniriche” (che ricordano vagamente la famosa “voce robotica” di “Focus” dei Cynic), che faranno capolino ogni tanto anche nel prosieguo del pezzo, qualche stacco più pesante e poi la partenza vera e propria con la solita magistrale alternanza tra riff “melodici” su tempi spediti e partenze "col turbo" assolutamente letali, stacchi pieni di groove con assoli vari (questa volta un po’ più “storti” e acidi direi, comunque azzeccatissimi) e ripresa del tutto per poi finire con una bellissima parte soft con arpeggio, assolo di basso in evidenza e fade out a concludere. Se non è un altro capolavoro, poco ci manca.
Torniamo ad una maggiore immediatezza e un’attitudine più thrash del solito (nei riff soprattutto) con un altro buonissimo pezzo come “Hands Of Lies”, che non rinuncia in ogni caso a momenti più ricercati e al lavoro allo stesso tempo eclettico e d’impatto del batterista.

Ed eccoci ad un altro picco assoluto del lavoro, ovvero “Pain Therapy For A Praying Mantis”, che inizia in maniera strana e spiazzante: ad un ascolto un po’ frettoloso e superficiale potrebbe apparire quasi come la ripresa del pezzo precedente dopo un semplice stacco, forse per il fatto di iniziare con un riff non troppo dissimile da quello portante che c’era sotto le prime strofe di quel brano, e per la voce che, a differenza di ciò che capita di solito, non entra qualche secondo o più dopo l’inizio del pezzo, ma praticamente in contemporanea con l’attacco strumentale. Comunque è solo un’impressione iniziale, poi il pezzo ingrana (con un riff tra i più belli), inizia ad articolarsi alla grande ed espandersi in varie direzioni come ormai questa talentuosa band ci ha abituato e la mascella dell’ascoltatore non può far altro che iniziare di nuovo a scendere verso il pavimento, come già era successo per (almeno) un altro paio di pezzi. Non mi dilungo di nuovo in descrizioni più o meno dettagliate (che sarebbero in questo caso ancor più ardue del solito), dico solo che siamo di fronte ad un altro pezzo a dir poco grandioso.
L’ultimo brano vero e proprio, prima di una specie di coda acustica/strumentale a titolo “Sleet”, è “Ruling Emptiness”, ennesimo buon brano (questa band non riesce proprio a scrivere qualcosa che sia anche solo nella media), con la nota varietà tipica del resto, tra parti spedite e d’impatto, altre più sincopate e nervose e altre ancora più tranquille, ma senza per questo far calare mai l’attenzione dell’ascoltatore grazie alla maestria tecnico/compositiva.

La prova strumentale di ogni singolo componente è superlativa ma sempre al servizio del pezzo, e il cantante offre varietà, espressività e potenza notevoli pur rimanendo cattivissimo in ogni frangente: veramente uno dei migliori growler/screamer in circolazione.

Questa è una band che meriterebbe tutto il successo possibile e avrebbe tutte le caratteristiche per conquistarlo (non ultimo un nome così particolare eppure che suona metal al 100% come pochi), al posto di una miriade di gruppetti, sia italiani che esteri, scarsi e/o inutili, senza la minima personalità né altra dote particolare, e che sono invece pompatissimi dalla label di turno e più o meno seguiti. Per quanto mi riguarda uno dei più bei dischi metal (da ogni punto di vista, vedi quanto detto all'inizio riguardo suoni, masterizzazione ecc.) mai usciti in Italia e uno dei migliori nel campo anche in assoluto.

Alzate "adeguatamente" il volume e che il godimento sia con voi.

Citazione d’obbligo per questi notevoli musicisti e compositori:

- Mirco Borghini: Vocals (già nei black/deathsters Lachryma Christi verso metà anni '90, così come il batterista)
- Leonardo Fusi: Guitars (già nei thrashers Spleen ad inizio anni '90)
- Francesco Miatto: Drums
- Giacomo Occhipinti: Bass (session anche sull'ottimo demo "Mind...Will...Action" dei Dysthymia, altra band della zona)

Stupenda anche la copertina e ottimo il nuovo logo inaugurato proprio con questo disco, elegante/sofisticato e allo stesso tempo con caratteristiche inequivocabilmente metal, così come molto curato e personale è tutto l’artwork del booklet, le foto ecc., ad opera di Fabio Timpanaro del Neon Trinity Kill studio.

Negli ultimi tempi la formazione ha subito dei cambiamenti importanti, primo fra tutti l’abbandono del cantante storico e il reclutamento di una cantante, Erica Puddu (già con gli Harmonic Distortion, di cui però non vi so dire nulla), che ho già potuto sentire mesi fa dal vivo constatando che ha una gran voce, grinta e anche un certo carisma, quindi davvero il miglior rimpiazzo che potessero trovare in giro.

Al basso è subentrato in pianta stabile, dopo un breve periodo nel quale era indicato come “session”, l’ottimo Federico Stiaccini, già con gli Over Faith (anche loro di zona). Infine alla seconda chitarra è arrivato Filippo Occhipinti (già nei Dysthymia anche lui), essendosi precedentemente avvalsi, per varie date dal vivo successive all’uscita del disco, di Francesco “Deimos” Bargagni, chitarrista/compositore assai noto nella scena, soprattutto estrema, fiorentina, già fondatore di band come gli Hellwrath, per dirne una.

Un consiglio finale: il disco, pur essendo abbastanza immediato e scorrevole fin dal primo passaggio, è uno di quelli che cresce costantemente col tempo e gli ascolti (soprattutto se attenti, come dovrebbe essere sempre del resto, in particolare per chi recensisce), si notano sempre più finezze e si apprezza ogni singolo arrangiamento, riff, parte ritmica, stacco e quant'altro che uno rischierebbe di perdersi - anche se abituato come me ad ascoltare metal, compresi i generi estremi di vario tipo, da anni e anni - se si ferma al primo o primi due o tre passaggi, con conseguente probabile sottovalutazione dell'opera, e sarebbe davvero un peccato. Perché, ribadisco, qui siamo su livelli ben superiori alla media del campo, sia italiana che estera.

Voto: 9/10

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(originariamente scritta per e pubblicata nella sezione recensioni del forum "Granducato di Metallo", ad inizio 2007. Ripubblicata successivamente verso l'autunno dello stesso anno sulla webzine "Shapeless Zine")

Alessio Casciani